PIAZZA NOVA - SAN PIETRO: CONFRONTO FRA ETNIE,
di Enrico Sciamanna

Quelli di S. Pietro avevano paura di quelli di Piazza Nova. Quelli di Piazza Nova avevano paura di quelli di S. Pietro. La paura si stemperava agli incontri che raramente erano cruenti. Cruento addirittura io non ne ricordo nessuno, nemmeno quando si andava in giro a carpire i fazzolettoni (rossi noi e i blu loro), portati al collo per il Calendimaggio, il tutto poi si concludeva con molta bonarietà e restituzione del maltolto. S. Pietro per uno di Piazza Nova non poteva che presentarsi in una prospettiva lontana. Il confronto avveniva ovviamente tra le chiese principali. La stessa facciata della chiesa appariva come una redazione minore di quella di S. Rufino: minore grandezza, leoni più piccoli, ridotta varietà di materiale di costruzione. Non aveva neppure il timpano e i rosoni erano imparagonabili: striminziti e tutti incassati nel muro. Un sagrato da campagna, con l'erba, che si innalzava sulla sinistra fino a costituire un greppo. L'interno poi, l'87% di noi non l'avevano mai visto, ma sicuramente saremmo rimasti sfavorevolmente colpiti dalla scabrosità delle pareti di nuda pietra, senza quei begli intonaci, affrescati addirittura, come in certe zone del presbiterio di S. Rufino che aveva anche un pavimento di marmo lucido, bianco e nero. Forse ci avrebbe impressionato la gradinata verso l'altare, ma quella cupoletta, rispetto a quella nostra verderame gigantesca. Il contatto ufficiale di coloro che appartenevano alla mia generazione avvenne per la disputa di una partita di calcio tra studenti delle terze medie: andata e ritorno. In quell'occasione noi prendemmo coscienza della loro esistenza in quanto entità etnica topograficamente collocata, e loro della nostra. La partita d'andata si svolse sul sagrato vegetale della chiesa e, nonostante loro avessero utilizzato dei giocatori fuori quota, oltre alla benedizione del potente santo, la nostra affermazione fu netta. Risalimmo, al termine dello scontro, orgogliosamente le vie che ci riconducevano alla nostra zona, per trascorrere in feste tutta la restante parte della giornata, tra il silenzio umiliato di parenti ed affini dei giocatori, che dovettero ammettere la nostra superiorità, lealmente manifestata, anche se in cuor loro era evidente che preparavano propositi di rivincita, che fu fissata a Piazza Nova per il 16 marzo 1961. Era il giorno dell'eclisse totale. Giornata cupamente simbolica per i giovani di S. Pietro: il loro firmamento calcistico si oscurò, come quello che sovrastava il glorioso campo che allora veniva ancora conteso a mucche, somari, scale, botti ecc. perché periodicamente vi si svolgevano le fiere del bestiame e oggetti circostanti. A questi veniva sottratto per epopee come quella che vide protagonista, sotto un mattutino cielo limpido, ma tendente al notturno, la mejo gioventù della parte alta. Anche il punteggio, che per carità di patria preferirei non ricordare, si allineava ovviamente all'eccezionalità dell'evento. L'orgoglio della nostra risalita non si ripeté in loro che discendevano, viceversa i nostri familiari, affacciati alle finestre delle vie, con i petti gonfi, di moderata superbia, deposero momentaneamente i vetri affumicati dalle candele con cui osservavano il sole bizzarro, per contemplare le modeste vittime della loro atletica prole. Alcuni, si favoleggia, mangiarono, ammannito da premurose matriarche, del pollastro quel giorno seppure non domenicale, anche per ritemprare le forze e prepararsi per un nuovo sempre possibile cimento. Alla mia generazione non ne furono riservati altri purtroppo, e così occorsero pretesti per visite al lontano quartiere: la frequentazione di amici (non avemmo difficoltà a riconoscere che gli alieni tutto sommato erano per molti aspetti, se non proprio come noi, quasi), l'ammirazione per qualche fanciulla, non rara nell'allora abbondante popolazione del sito. Ma difficile era stabilire una relazione, perché esse, consapevoli di possedere una bellezza più fine rispetto alle nostre possibilità, una bellezza di canottiere di filo di scozia, di cucine imbiancate e con stoviglie di Deruta e di letti d'ottone con biancheria continuamente sostituita, raramente concedevano ai visitatori più di un sorriso o un saluto con al massimo chiacchiere di circostanza: "Hai fatto i compiti? Domani mi interrogano, perché non ti lucidi le scarpe?" e le relazioni affettive si stringevano per lo più tra conterranei o al massimo potevano comprendere gli abitanti di Piazza, più vicini a loro nel carattere, o, eventualmente degni forestieri. Pochi connubi misti, così che le distanze sono rimaste non colmate. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che le difficoltà di dialogo dipendevano dal fatto che, mentre noi di Piazza Nova discendevamo dagli umbri, loro discendevano dai benedettini, che già dall'epoca del fondatore dell'ordine avevano colonizzato l'area: i ritrovamenti sotto la chiesa lo lascerebbero credere. Questo dovrebbe essere il motivo delle differenze, che hanno assunto una radicalizzazione nel corso del tempo e, se non c'è più la paura come sentimento reciproco predominante, eppure la diversità permane. E permarrà finché, col passare del tempo, non si assorbirà per scomparsa dei protagonisti.

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